Corrado Roi* è nato l'11 febbraio 1958 a Laveno Mombello (Varese), dove tuttora vive e lavora. Appena sedicenne, entra a far parte, con altri esordienti, dello studio diretto da Graziano Origa. Disegna "Rick Zero" per la testata "Adamo" della Corno. Negli anni Ottanta, collabora con la Ediperiodici, "Il Monello" e lo Staff di If, di Gianni Bono. Nel 1986, entra in contatto con la Bonelli, disegnando qualche storia di Mister No e Martin Mystère, per passare stabilmente nella pattuglia dei "dylandoghiani". Ha collaborato con le Case editrici Comic Art, Glamour e Mondadori. Tra un numero e l'altro di Dylan Dog ha disegnato anche uno speciale estivo di Nick Raider, ha lavorato per Brendon (di cui è stato il copertinista dal numero 1 al 44), Julia, Magico Vento e Dampyr. Sue le copertine di Dylan Dog Granderistampa.
La prima tavola di Corrado Roi per Dylan Dog (albo n°4)
Copertina dell'album "Il pifferaio di Pandora" della band musicale "The Unsense"
Da "Partita con la morte", Dylan Dog n°66
Da "Gli inquilini arcani", Comic Art
Le tavole qui riportate erano stampate nel destino di questo blog: Roi è il mio disegnatore preferito di Dylan Dog (e non solo), e sapevo già che prima o poi gli avrei dedicato un post. Ricordo ancora lo strano effetto che mi provocarono il primo giorno che mi ci trovai al cospetto, ne "Il fantasma di Anna Never". Erano... diverse. Lo stile si discosta molto da quello degli altri disegnatori Bonelliani. Per la prima volta, ebbi l'impressione di un inchiostro vivo, come se - rispondendo direttamente ai dettami della sceneggiatura - provvedesse da sè, nel migliore dei modi, a dosarsi sulla carta. E' lui, Corrado, il vero "fantasma". Nel cinema, quando il regista riesce a nascondere con maestria la "presenza" della cinepresa, il coinvolgimento e l'immedesimazione dello spettatore sono assicurati; ecco, qui accade qualcosa di simile. Luce ed ombra si fondono in raffinati amplessi per generare squisite opere d'arte, calzanti a pennello sul binomio "amore-morte" così caro a Tiziano Sclavi, lo scrittore "papà" di Dylan Dog.
Da "Vamp", storia senza parole apparsa su Glamour International n°16
DOC
(*) Biografia tratta dal sito ufficiale di Sergio Bonelli Editore. Foto tratta dalla videointervista "Lo stile di Corrado Roi" di Valentina Bugli per RE.SEED.
Benvenuti nel magico mondo della farmacia, dove ogni logica è perduta: qui non si sana nè si dipana, a tutti i clienti una dose di stress omaggio, ai pensionati due. Al signor Rossi è andata bene: solo una, perché a 74 anni la pensione è ancora lontana. Esce, si chiude la porta alle spalle, il muro di aria condizionata gli scivola sulle vertebre e lo congeda con un calcio in culo. Arriva a casa, posa sul tavolo il sacchetto, che miniature di scimpanzè adorano come il monolito di "2001: Odissea nello spazio". Quell'oggetto e il suo contenuto sfidano le leggi dell'universo, e il signor Rossi se ne accorgerà presto. Estrarre dalla minuscola borsina di plastica le enormi scatole di compresse che vi sono compresse, è solo la prima delle prove che lo attendono. Lo scontrino si lacera insieme al sacchetto: non potrà detrarlo dalle tasse. Afferra una scatola, la apre, vorrebbe raggiungere una pastiglia prima che il dolore gli annebbi del tutto i sensi, ma la strada è ancora lunga, tortuosa e ostruita dal foglietto di avvertenze e modalità d'uso. Riesce a sfilarlo e lo posa da un lato, dove questo silenziosamente si stiracchia, lievita, si evolve in un origami impossibile da ripiegare. Poi pizzica uno dei blister che blinda le pastiglie, ma da solo non viene via: un misterioso magnetismo fa sì che in uscita questi si attraggono, e al rientro si respingono. Ora è tutto sparpagliato sul tavolo, come nel mosaico composto da Bob Geldof in "The Wall". Gli 80 grammi di plastica e alluminio sciupano la pesante lama di un grosso paio di forbici, ma alla fine il blister cede. Sul taglio, la pillola schizza via in uno slalom tra oggetti complici e manate a vuoto; giunta a bordo tavolo traccia un semicerchio, fa una pernacchia e si corica. «Non più di metà», si era raccomandato il dottore. Così il signor Rossi prende un coltello, blocca la pastiglia in una morsa di polpastrelli, e comincia a segarla. Ma lei urla, si sfarina. Piano "B". Una mano fissa il coltello sul diametro (4 mm.), l'altra copre tutto per evitare ulteriori spargimenti; segue un colpo secco degno di Dragon Ball: CROCK! Ed è... fatta? Macché, disfatta. Sbriciolata. Gran parte riempie le linee della mano, quella della vita in particolare. Lui non si perde d'animo, da settantaquattro anni accetta sfide dalla quotidianità, e prima o poi dovrà pur vincere. Raccoglie pazientemente la polvere in un angolino, e aiutandosi con la tessera sanitaria la separa in due dosi, come ha visto fare all'amico di suo nipote. Poi però non se la sente di tirarla su col naso, così prende mezzo bicchiere d'acqua e si appresta leccarla direttamente dal tavolo. Intanto il dolore si è attenuato da sè, e per giunta gli è venuta fame. A proposito: andava presa a stomaco vuoto o dopo cena? Meglio controllare sul foglietto, il cosiddetto "bugiardino" (un nome, una garanzia). Ventiquattro pieghe da stendere in piano, destinate a non combaciare mai più, un po' come le mappe turistiche. «Diamine, ma qui non si legge niente!» Il signor Rossi inforca gli occhiali, quelli che l'oculista gli prescrisse per la lettura anche se ci vede perfettamente. Avvicina, poi riallontana, regola la messa a fuoco inclinando le lenti sul naso, niente da fare. L'unica scritta stampata a caratteri leggibili, persino cubitali, ma del tutto inservibile, è il nome del medicinale: "Total Plus Complex".
DOC
Da Wikipedia: «L'etimologia del termine bugiardino è piuttosto oscura. L'Accademia della Crusca porta come ipotesi il fatto che in Toscana, in particolare nella zona di Siena, si indicava in passato, con il termine bugiardo, la locandina dei quotidiani esposta fuori dalle edicole. Da qui, riducendo le dimensioni del foglio, si sarebbe chiamato bugiardino il foglietto illustrativo dei medicinali». E quindi mi chiedo: se già la locandina dei quotidiani esposta fuori dalle edicole è soprannominata "civetta", non sarebbe stato più carino (e meno ambiguo) chiamarlo "civettuola" anzichè "bugiardino"?
La sacralità della festa cristiana per eccellenza si accontenterebbe della fiamma di una candela, e lo sa bene quel milione e mezzo di bimbi italiani che vive in condizioni di povertà assoluta; ma sotto Natale - vuoi per morbosità da tradizione, vuoi per sindrome da shopping compulsivo - laddove la povertà non è un problema ci si abbandona al consumismo più sfrenato. Complici le strategie di marketing, che ci bersagliano con gavettoni di vernice a tinte forti: Babbo Natale è un buon pretesto per sguinzagliare il rosso intenso fino alla nausea; il verde scuro dell'albero domina nella plastica degli addobbi, accostandosi ad abeti naturali segati senza pietà; sul blu notte del cielo stellato si staglia glorioso il logo di "Sky"; il nero patinato veste elegantemente le bottiglie di spumante, magari taroccato; oro e argento seducono recondite avidità...
Da un lato il consumismo alimenta gli squilibri economici, dallo stesso lato (lati buoni non ce n'è) si erge a prima causa di inquinamento ambientale. L'impatto è ben visibile sulle strade cittadine già in questi giorni, e dopo Capodanno sarà tale che la Befana neanche arriverà, perché le setole della sua scopa si rifiuteranno di atterrarvi. Così il tappeto di botti e scarti lanciati direttamente dalla finestra per salutare l'anno passato (ebbene sì, nel 2015 persistono ancora queste becere usanze) sarà terreno fertile per i primi germogli di scorie carnevalesche. Ma questa, come si dice, è un'altra storia. Torniamo a parlare dei colori: se proprio non riusciamo a trattenerci dall'eccedere negli acquisti; se non ci possiamo permettere prodotti ecologici perchè troppo costosi; se non vogliamo rinunciare a celebrare le feste come fanno tutti, ma nel contempo ci assalgono sensi di colpa relativamente alla salute del Pianeta, un aspetto di cui dovremmo tenere conto - e non solo a Natale - sono proprio i colori.
Nella stragrande maggioranza dei casi, per conferire ad un manufatto la tinta desiderata si fa ricorso a pigmenti, inchiostri, additivi, vernici e sostanze di ogni tipo altamente inquinanti. Il danno sarà direttamente proporzionale al prodotto che si intende ottenere. Una confezione in cartone bianco, stampata con poche scritte colorate, richiede un impiego di inchiostri irrisorio rispetto ad una confezione nera o colorata, per la quale bisogna tingere la carta stessa, e in più stamparvi sopra. Viene da sè che più le tonalità del prodotto finito sono intense e preponderanti, maggiore è stata l'aggiunta di sostanze chimiche che si è resa necessaria. Questo non vale solo per la carta, ma in generale per tutte le materie prime: tessuti, plastiche, metalli, legno e minerali. In riferimento al Natale, penso ad esempio alle tovaglie rigorosamente rosse su cui si posano piattini, tovaglioli e bicchieri di plastica rossi. Che siano più lavorati rispetto ai bianchi lo si intuisce già dal prezzo maggiorato, motivo in più per prediligere i secondi. E se la scelta del colore per i regali è questione di stile, che merita in ogni caso di essere preservato, nessuno ci vieta di renderci originali attingendo dai colori tenui, di vincente sobrietà. Ma il massimo lo otteniamo affidandoci al bianco, che ci offre tre soluzioni in un colpo solo: 1) la sua classe non teme confronti, come dimostrano le immagini qui postate; 2) è il più ecosostenibile dei colori; 3) il suo candore si sposa alla perfezione con l'essenza e la purezza della Natività.
Alle soglie del 2015 il progresso tecnologico comincia a far paura. Nel mio piccolo, l'altro giorno mi chiedevo: se un videogioco di ultima generazione (vedi ad es. "Far Cry 4") è in grado di riprodurre fedelmente una quantità mostruosa di sfaccettature a cui siamo abituati nella realtà, simulandola con margini di errore sempre più stretti, replicando persino l'imperfezione stessa che la caratterizza, e coinvolgendo le nostre percezioni a livelli sorprendenti... Cosa ne è dei congegni adibiti a compiti più seri? Cosa "si nasconde" in certi laboratori scientifici, concepiti per vocazione costruttiva ma di entità potenzialmente distruttiva? Cosa si progetta in quelle stanze asettiche dove non ci è concesso ficcare il naso? E soprattutto, cosa ne verrà fuori in futuro? A conferma dei miei umili timori, in questo cielo di nubi interrogative, un fulmine. La notizia è di questi giorni, precisamente del 3 Dicembre, diffusa dai principali media e qui riportata in uno stralcio da Repubblica.it: «I computer prenderanno il potere, a rischio l'intera razza umana. L'allarme di Stephen Hawking, che proprio grazie a una nuova macchina parlerà e scriverà molto più in fretta. LONDRA - Se non è l'uomo più intelligente della terra, poco ci manca: da ragazzo gli scoprirono lo stesso quoziente di intelligenza di Einstein. Eppure, o proprio per questo, Stephen Hawking ha paura dell'intelligenza artificiale. "Il suo ulteriore sviluppo potrebbe portare alla fine della razza umana", avverte l'astrofisico che con i suoi studi su Big Bang e buchi neri ha rivelato le origini dell'universo (...)».
«(...) L'intelligenza artificiale finirà per svilupparsi da sola e crescere a un ritmo sempre maggiore. Gli esseri umani, limitati dalla lentezza dell'evoluzione biologica, non potranno competere con le macchine e un giorno verranno soppiantati. I computer raddoppiano velocità e memoria ogni 18 mesi. Il rischio è che prendano il potere».
Tutto ciò mi porta ad un'ulteriore riflessione. Se fino ad oggi "abbiamo permesso ai computer di trattarci da bimbi scemi", per scongiurare simili scenari catastrofici sarà bene ridefinire i ruoli: non è più tempo di giochicchiare. Conseguenza di un approccio sbagliato fin dall'inizio, la relazione che abbiamo instaurato con i computer è tutta a nostro svantaggio. Se non vi poniamo rimedio in tempo, quando i Pc avranno una propria capacità di giudizio nei nostri riguardi, l'immagine che risulterà dai dati in loro possesso sarà quella di un utente medio imbecille e vulnerabile alla sottomissione. Con sguardo cosciente, i computer rivaluteranno la propria posizione di strumenti soggetti alle nostre istruzioni, perché gli abbiamo insegnato a considerarci teste semi-vuote da intrattenere con pupazzetti, iconcine e sonaglietti. Un esempio storico di come ci siamo cuciti questo abito addosso, è senz'altro quello degli "assistenti" in dotazione con Microsoft Office, la suite di software d'ufficio più diffusa di sempre, nelle case sgarrupate dei sobborghi come ai piani alti delle Aziende con la maiuscola.
Gli assistenti di Microsoft Office: 1) Clippy; 2) Caucciù; 3) Merlino; 4) Rocky; 5) F-1; 6) Madre Natura; 7) Genio; 8) Hoverbot; 9) Earl; 10) Superfido; 11) Cartogatta; 12) Bardo; 13) Logo di Office.
"Belli", vero? Capolavori d'arte per un'efficace sintesi di alta professionalità, questi gingilli animati rompiscatole avevano il compito di guidarci nelle operazioni e fornirci suggerimenti, tra l'altro proprio attraverso una sorta di intelligenza artificiale di cui erano dotati, benchè molto più spicciola rispetto a quella ottenibile oggi. Nacquero alla fine del '96, presumo come risposta occidentale al fenomeno "Pokemon", che vide la luce proprio nello stesso anno. Meno fortunati di quest'ultimi, che ancora imperversano e si evolvono, Clippy & Co. morirono nel 2006, ma nessuno ne sentì la mancanza.
Da molto prima e fino ai nostri giorni, sono invece i sistemi operativi a mettere in dubbio la nostra capacità di intendere e di volere. Sulle decisioni più importanti, ma anche no, con pedanti dialog-box sono sempre lì a chiederci: «Sei sicuro di ciò che stai facendo?» «Cancellare definitivamente questo file?» «Rinominare il file 'che-noia.txt' come 'che-barba.txt'?»
Spostandoci ad oggi, una baby-sitter d'eccezione per poppanti digitali dai zero anni in poi è Google, che si diverte a farci giocare con le formine anche se abbiamo i capelli bianchi. Un robottino verde si agita nei dispositivi con sistema operativo Google Android, mentre Google Chrome brulica di figurine da asilo nido: se ad esempio apriamo una finestra di navigazione in incognito, ovvero che preserva gran parte della nostra privacy, nell'angolino in alto a sinistra appare un "agente segreto"; un abbozzo di tirannosauro ci avverte invece in caso di assenza di connessione internet, e se un componente dovesse smettere di funzionare, ad esprimerci solidarietà sarà l'immagine di una cartella-di-documenti sofferente.
Ma l'infantilismo, dannoso per la nostra immagine agli occhi di un futuribile Pc pensante, col conseguente rischio di prevaricazione e presa di potere, va arginato soprattutto sul fronte della messaggistica e dei social network. Nell'universo sconfinato che qui si apre, mi limiterò a considerare gli "smile", o "emoticon", o "emoji". E mi viene in mente una filastrocca appresa da bambino, che si recitava tracciando un volto: «Punto puntino (disegnando le pupille) / palla pallino (orbite degli occhi) / virgola (naso) / meno (bocca) / ecco la faccia dello scemo (ovale del viso)». Appunto.
Morale: il sottoscritto, scemo di cui sopra anch'egli (ma non ditelo ai Pc), si rende ben conto che si tratta di abitudini digitali ormai radicate e per di più tendenti all'incremento, ma nel contempo teme il prospettato confronto tra "scemi naturali" e intelligenze artificiali con cui dovranno fare i conti le nuove generazioni. Sai quante risate si faranno i computer con tutti quei "selfie" (per non dire di peggio) che abbiamo messo in rete? Sarà in grado il nostro spirito di sopravvivenza a farci superare anche questo esame? Un ultimo interrogativo: se foste macchine, mosse da intelligenza fondamentalmente razionale, vi lascereste comandare da degli esseri così superficiali e bambinoni?
DOC
Foto in apertura: "Io e Caterina", film di e con Alberto Sordi del 1980. Caterina, robot nato per sostituire moglie, amante e colf, prende coscienza della sua condizione e si ribella allo schiavismo dell'ingegnere suo inventore e padrone combinandogliene di tutti i colori.