Utenti di Facebook? Nel reparto frigo. #ChiamaleBazzecole #5



Accedi a Facebook, navighi tra i post degli Amici e degli "amici", commenti, metti i like, dici la tua, pubblichi le foto. Poi ti stufi e spegni tutto. Ma i tuoi contatti possono continuare a vedere ciò che hai postato, persino un messaggio o una foto che hai inserito dieci anni fa. Come si rende possibile questo prodigioso artificio? Da utenti, abbiamo la percezione che nelle nostre "commedie virtuali" ci siamo solo noi (attori) e i dispositivi che utilizziamo (palcoscenico con diretta in mondovisione); ma ci sfuggono le altre entità che vi prendono parte dietro le quinte. Avete presente quello slogan che recita: «Persone oltre le cose»? Bene, qui avviene l'esatto contrario. I pochi istanti necessari affinché l'invio di un messaggio raggiunga il mondo intero sono gestiti da un'efficacissima regia di tecnologie che provvede ad acquisire i dati, e ancor prima di riversarli in rete, immagazzinarli all'interno di elaboratori, i cosiddetti server. Già, perché ciò che mettiamo su Facebook non è "usa e getta" come una telefonata, ma viene conservato: con estrema cura, a tempo indeterminato e in un luogo ben preciso.


Si dà il caso che al gelo della Lapponia non ci sia solo Babbo Natale con le sue renne, ma ci siamo anche noi, gli oltre due miliardi di iscritti a Facebook. E' qui che sono collezionati i nostri profili, molto più "grassi" di informazioni rispetto a quelli pubblici che abbiamo condiviso; ma prima di approfondire questo aspetto, vorrei mostrarvi più da vicino dove ci troviamo.
Sotto il Circolo polare artico, nel nord Europa, c'è la Svezia, e a nord di questa c'è una città di nome Luleå, che conta appena 46.000 abitanti in carne ed ossa, a cui si aggiunge il popolo dei nostri cloni digitali. Qui, nel punto indicato dalla mappa, sorge il Data Center di Facebook.


Quelle che vedete qui sopra sono delle grosse ventole che convogliano il gelo dall'esterno all'interno della struttura, in modo da raffreddare i server (iperattivi 24 ore), e il calore di scarto viene utilizzato per climatizzare gli uffici del personale. Il tutto è recintato, sorvegliato a vista giorno e notte da guardie e telecamere di sicurezza, e vi possono accedere esclusivamente gli addetti alla manutenzione e pochi altri eletti. Se dovesse perdersi anche un piccolo componente, gli operatori hanno un'ora di tempo per ritrovarlo, dopodiché le porte vengono chiuse e nessuno può uscire dall'edificio finché la cosa non si risolve. Il tesoro custodito in questa fredda cassaforte, come dicevo, siamo noi, ovvero le informazioni su di noi memorizzate e gestite dagli elaboratori, pronte a fruttare una pioggia di denaro.


Ma come fanno ad acquisire un valore commerciale le informazioni che condividiamo gratuitamente, e che comunque nessuno pagherebbe ai singoli utenti? Intanto va detto che Facebook indaga su di noi anche mentre navighiamo su altri siti: i suoi "agenti 007" altro non sono che i famosi bottoni "Mi piace" e "Condividi", ormai presenti ovunque, che tengono traccia delle nostre interazioni. E se mettiamo una foto altrove, ad esempio su Instagram, ci pensano i software di riconoscimento a individuarne una somigliante tra quelle che abbiamo postato su Facebook, così da poter associare ed incamerare anche i dati provenienti dal nostro profilo Instagram. Queste ed altre diavolerie, sempre più sofisticate, monitorano incessantemente il nostro ambiente virtuale.

Quanto ai ricavi, il lavoro di Facebook - che entro i prossimi due anni si appresta ad inaugurare altri due Data Center come quello appena illustrato, uno in Irlanda e un altro in Danimarca - è assimilabile a quello di una società petrolifera. Le informazioni fornite dagli utenti equivalgono al petrolio grezzo, di scarso valore: Facebook lo estrae, lo raccoglie, lo lavora - ovvero organizza un'infinità di dati in una preziosa fonte di statistiche sempre più attendibili - e lo rivende a caro prezzo. Per le aziende che comprano i nostri pensieri, i nostri interessi, i nostri desideri, le immagini dei nostri corpi, i nostri sogni e la nostra solitudine, la "vita made in Facebook" rappresenta un vero affare. Oltre a sapere ciò di cui abbiamo bisogno, gli acquirenti possono - se non indovinare - intuire ciò di cui avremmo e di cui avremo bisogno; e saranno pronti a spingere il loro mercato in quella direzione: sia con nuovi prodotti in linea con il nostro modo di pensare ed agire, sia attraverso campagne pubblicitarie capaci di mirare a colpo sicuro e senza pietà ai punti deboli della nostra psicologia.

Se consideriamo che altri social network e "timonieri" del web adottano strategie analoghe (qui il dito è puntato su Facebook solo perché al momento - e da anni - è il più diffuso di tutti, rinforzato dal suo Whatsapp), lo scenario si fa preoccupante. Non sempre si sa di preciso chi acquista i pacchetti di dati e l'uso che poi ne viene fatto; e non tutti i gestori sono dotati di alti standard di sicurezza, per cui questi dati vengono spesso rubati, sottraendo fisicamente le memorie ottiche (hard-disk), o più frequentemente attraverso attacchi informatici (hacker). Nelle mani sbagliate, le informazioni possono essere divulgate e strumentalizzate, violando le già imperfette leggi in materia di privacy e manipolazione che li proteggono; oppure possono influenzare gli esiti di una sessione elettorale; o persino dare vantaggi ad un paese in conflitto sui suoi avversari.
E a rincarare la dose ci pensa ancora una volta la tecnologia. Le macchine ormai imparano da sole, e se gli affidiamo i nostri comportamenti sono già in grado di trarne e rivelare le probabili conseguenze: una sorta di moderna sfera di cristallo, appena raggiunta - dopo secoli di speculazioni su tarocchi, riti esoterici e influssi astrali - percorrendo proprio il sentiero opposto, ovvero la più esatta delle scienze. Ma come ben sappiamo, le grandi conquiste della scienza sono spesso soggette a ritorcersi contro di noi.


Così, mentre inorridiamo alla vista degli allevamenti intensivi di animali (nella foto un singolo stabilimento in Cina: 120 milioni di polli all'anno, 200.000 al giorno nei feriali e fino a 400.000 nei prefestivi), c'è chi da tempo affila i suoi coltelli per "spennare" anche noi e venderci come surgelati al banco frigo.
Come si è arrivati a questo stato di cose? Quanta responsabilità ricade su Facebook, e quanta sugli utenti che si iscrivono? La questione non è molto diversa dalla circolazione delle armi negli Stati Uniti. Se un americano al mattino si alza di malumore, esce col suo fucile e fa una strage per la strada o in una scuola, indubbiamente è il diretto responsabile delle proprie azioni, e in quanto tale viene giustamente giudicato colpevole. Ma come giudichereste voi, e come viene effettivamente giudicato chi, prima di lui, gli ha permesso di detenere quell'arma e portarla con sè liberamente? Badate bene, qui stiamo parlando di una nazione e di un governo limitati da confini geografici; chi possiede il controllo della rete, invece, può espandere la sua influenza ben oltre, ovvero condizionare la vita di chiunque sia in grado di connettersi, in ogni angolo del pianeta.

In conclusione, una domanda sorge spontanea: esiste un modo per sfuggire a questo processo di "congelamento e scongelamento" a cui siamo sottoposti? Certo che sì. Semplicemente, basta non iscriversi a Facebook (o ad altro). Nessuno ci obbliga a sottoscrivere il contratto proposto al momento dell'iscrizione, che dà adito a Facebook di sfruttare le nostre vite. A proposito di contratto: va detto che la cosiddetta "trasparenza", ormai, non è meno devastante dell'illegalità. La strategia è tale per cui - anziché nascondere le clausole - le aziende ne mettono in campo così tante da ottenere come effetto collaterale la nausea dell'utente, spingendolo a iscriversi senza nemmeno dargli un'occhiata, e accollandogli così gran parte delle responsabilità a sua effettiva insaputa. Se all'atto dell'iscrizione a Facebook, dovessi prima cliccare e leggere per intero le prime tre voci che trovo nella home page - CondizioniNormativa sui datiNormativa sull'uso dei cookie - già di per sè corpose, e poi passare in esame tutte le sottovoci che si annidano all'interno di ciascuna di esse, addentrandomi e perdendomi in un ipertesto degno di Wikipedia, farei prima a conseguire quelle due o tre lauree utili a comprenderne appieno i contenuti. Se davvero vogliamo parlare di trasparenza (senza virgolette), ecco ad esempio come dovrebbe essere modificata l'home page di Facebook:


E quindi... basta! Decido di non iscrivermi più a Facebook, e se ero già iscritto mi cancello! Voglio vivere e morire con la coscienza a posto, io, e non "prostituirmi", per giunta gratis, anzi peggio: per conto terzi! Poco importa se non potrò comunicare diffusamente con i miei cari, vicini e lontani; se non potrò condividere con il mondo i miei stati d'animo e le sfaccettature della mia personalità; se non potrò collaborare all'interno dei gruppi; se non potrò contribuire fervidamente alla vita politica della mia città e dell'intero paese; se le persone che frequento mi declasseranno a "non raggiungibile"; se in malaugurati casi di emergenza, miei o altrui, potrò comunicare con un numero nettamente inferiore di persone; se non potrò collaborare con i colleghi di lavoro, o se avrò una marcia in meno per trovarlo, un lavoro; se non potrò dare risalto alle mie attitudini e alle mie capacità alla pari degli iscritti; se non potrò partecipare in diretta a gioie e dolori dei miei figli, fratelli, genitori lontani da me; se... Un momento, qui qualcosa non torna: ho elencato meno di un terzo delle implicazioni che ha Facebook nella mia vita e nella società globale, e il piatto della bilancia ha già toccato il fondo.

Carissimo - a giudicare dagli utili - Mark Zuckerberg, fondatore e amministratore di Facebook, e ad oggi quinta persona più ricca del mondo; scusa se ti scomodo per la seconda volta nel giro di pochi mesi, e lungi da me l'idea di farne una faccenda personale.
A proposito, temo di capitare nel momento meno adatto: ho trovato davvero di pessimo gusto la scelta della rivista statunitense "Wired", di dipingerti sulla sua prossima copertina col volto pestato di botte (vedi anteprima a lato), seppur metaforicamente e in relazione a malcontenti che in parte condivido. Come se in America non avessero già abbastanza problemi con la violenza, al punto di dover ricorrere ad espedienti grafici per promuoverla perché non si può farne a meno...
Tornando ai motivi per cui ti disturbo, sarei curioso di conoscere il tuo punto di vista sulle considerazioni di cui sopra. Perché vedi, a conti fatti, quella che tu proponi come innocente sottoscrizione ad un contratto, a me risuona tristemente come l'imposizione di un subdolo, sleale ed ignobile ricatto.


DOC


#ChiamaleBazzecole: rubrica di attualità volta a sensibilizzare l'eventuale pubblico su questioni troppo spesso nascoste sotto i tappeti da chi poi pretende che camminiamo con le pattine, al fine di evitare il "tutti giù per terra".

Commenti

Maria D'Asaro ha detto…
Complimenti. Un articolo/denuncia che è una preziosa fucina di riflessioni. Grazie. Un abbraccio.
Pippicalzelunghe ha detto…
Ciao caro Doc e allora la domanda mi viene spontanea tu sei iscritto a Faicebook ??? Un articolo molto chiaro che anche un'ignorantona come me ha capito, non ho mai compreso il perché di iscriversi chiedendo amicizia, mettere in rete foto dei propri bimbi o altro di peggio...io abbraccio il metodo Montalbano restio a questo mondo telematico !!!
Cosmoabbracci !!!
@Maruzza - Speravo che le mie fossero solo paranoie, ma scopro sempre più realtà scottanti, a conferma di quanto sia pericoloso mettere troppo potere nelle mani di una o di pochissime persone. Grazie per il tuo puntuale riscontro. Riabbraccio, buona serata.

@Pippi - Ebbene sì, carissima: fondamentalmente per motivi di lavoro, anch'io ho dovuto cedere al ricatto. Così come accadde quando fui costretto a dotarmi di smartphone, o di connessione internet: valori aggiunti e positivi, per carità; ma solo finché non minacciano la democrazia e la libertà dei singoli. La tua resistenza ti fa onore. Grazie per il commento, altrettanti cosmoabbracci e buona serata.

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